La natura d’inverno

Ho trovato più conforto nella natura d’inverno che nella moltitudine delle tue parole.

Inconsapevole, camminavo dentro al mio mondo, senza accorgermi di avere accanto e tutt’intorno un’amica silenziosa che mi seguiva ad ogni passo.
Era uno di quei giorni in cui ci si sente soli, incompresi e diversi; o forse era solo uno di quei giorni in cui si vede più lucidamente la reale condizione dell’esistenza umana. Le persone, così apparentemente simili a me, erano soltanto piccoli pianeti lontani e irraggiungibili; forse anche di un’altra galassia.
Lei invece era lì, era come me, e mai avrei pensato di trovare conforto in ciò che ad un occhio poco attento può sembrare così estraneo e incomprensibile.
Aperti veramente gli occhi, mi accorsi che mi stava cingendo tutta intorno nell’abbraccio più caldo che umilmente potesse offrirmi, e con stupore e gratitudine non potei fare a meno di notare tutto quello che ci rendeva così simili: i colori tetri, le foglie secche, i rami vuoti; quegli scheletri lignei senza carne ad ammantare l’osso – esposti al freddo che conficca, senza pena, spilli addosso – come il mio corpo, nonostante io avessi la pelle, il maglione, il cappotto, la sciarpa e anche quel berretto di cui mi vantavo tanto per il suo tenermi al caldo.

Tutto ciò, però, non bastava.

In fondo, io e la natura d’inverno, eravamo entrambe parimenti scoperte.

Solo un piccolo particolare la distingueva e le conferiva una serenità a me sconosciuta. Io quel freddo non lo accettavo, con tutti quegli spilli, col dolore, la tristezza.
Era una continua lotta tra com’era e come doveva essere.
Invece, la mia nuova e singolare amica lo sopportava di buon grado, restando immobile e impassibile, sebbene presente. Tutta secca era e tutta secca si accettava. Io ero secca e invece volevo fiorire come a primavera; ma primavera ancora non era.

Aspetta – credetti di sentire d’un tratto. Aspetta. Accogli.

Piano piano la nebbia fitta che offuscava la mia mente iniziò a dipanarsi.
Non eravamo morte, né senza speranza, non era per sempre, eravamo solo sospese: “in attesa di”. Era tutto momentaneo! La sua primavera sarebbe arrivata il ventun di marzo, o auspicabilmente qualche giorno prima; la mia sarebbe potuta arrivare tra un mese, una settimana o – chissà – magari anche meno.

Alla fine, forse, ero persino più fortunata io.

E le poche figlie sempreverdi che mostravano orgogliose il loro inarrestabile vigore non le creavano tormento o frustrazione perché non desiderava che tutte le altre fossero come loro. Da madre amorevole e paziente attendeva giorni migliori, i giorni in cui anche tutte le altre figlie, che erano poi la maggior parte, sarebbero state pronte a rifiorire dopo il lungo l’inverno; coi loro nuovi colori, i rami più robusti e i timidi fiori variopinti che l’avrebbero adornata con garbo ed eleganza rendendola meravigliosa più che mai.

Tornerai ad essere meravigliosa anche tu – mi disse salutandomi.

Così ti ringrazio, mia cara amica, perché, non so se con queste poche parole immaginate o con la tua sola imponente e garbata presenza, sei riuscita a scaldarmi un remoto angolo di cuore, e mentre tornavo a casa – proprio lì, in quel preciso punto – una piccola gemma di felicità stava già nascendo.


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Immagine in evidenza: Sandra Dieckmann

Una sera di pioggia

Il corpo appena nudo
un’onda in movimento
sdraiato sul sedile
di una renault spenta;
le nubi già intessevano la pioggia
mentre una donna sirenetta
giocava a farsi mare,
e un dito d’uomo era una nave
che viaggiava solitaria
tra la clavicola e la spalla
sulla sua pelle d’acqua e luna.

Lontani,
gli occhi dei palazzi
li circondavano di stelle.

Chissà cosa farà
la gente triste nelle case
se la felicità che è lì racchiusa,
è solo vostra,
e se si accorgeranno i due signori
con l’ombrello
che ora costeggiano quell’isola
di mare e di metallo.

Tagliando i fili della pioggia
passeranno,
guardando forse di sottecchi,
con un sorriso nelle tasche;
e mentre i piedi corrono alle case,
la testa volge indietro di trent’anni,
dove balena lieve ancora
il cielo blu di un’altra età.

 

 

 

 


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Immagine in evidenza: Giovanni Esposito (Quasirosso)

Mi basta un niente

Mi accontento di brevi felicità:

un libro appena preso,
accarezzare il gatto,
qualcosa che mi piace da mangiare,
il vino buono, un bel vestito,
andare un po’ a teatro.

Il resto, nel frattempo,
scorre liscio,
e quasi mi stupisco
se non ti penso affatto,
a ridere di gusto,
di stare credo bene.

Ma poi mi basta un niente,
il guizzo di un ricordo:

la scia di una canzone
che ritorna,
un po’ del tuo sapore
trattenuto,
la luce repentina di uno sguardo,
la linea del profilo mentre guidi,
Valeria”,
come lo dici,
un uomo che non c’entra
e ti somiglia,
la mano aperta impressa
e ancora cara,
le labbra che s’increspano un pochino
se le chiudi.

E in me,
da qualche parte,
esplodi amore.

 

 

 


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Immagine in evidenza: Francisca Borzea

D’estate si esagera

D’estate si esagera,
si esagera sempre.

Il ragazzo felice dimora nell’aria
e se innamorato lo grida agli uccelli
scalando i palazzi di notte dai tetti
trasmette alla luna l’ebbrezza dei baci.

Il ragazzo scontento s’immerge nell’ombra
e in un letto d’inverno lo raggiunge il rimbombo
di risa e schiamazzi dal mare.
E lei che lì fuori sorride
ad un altro gli pare
la donna più bella del mondo.

La vita è più vita e la morte più morte
d’estate, e se solo un amore ti lascia
il suo vuoto smisura ed il sole si oscura
ed ancora brutale ti acceca.

D’estate si esagera,
si esagera sempre.

E non resta che attesa
di coscienze destate d’autunno:
un settembre sincero
renderà lucidissime
le emozioni che senti,
e dirà senza inganni

quanto veramente tu ami,
quanto veramente tu manchi.

 

 

 

 


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Immagine in evidenza : Alessandro Gottardo

Girasole

Saltelli
con passi d’argento
venendomi incontro
come i fanciulli
verso il nuovo giorno,
nella tasca dei jeans
fa difetto
una ciliegia
rubata per me
di soppiatto
da un ramo generoso che sporgeva
sulla via.

Non hai fiori nella mano,
però adesso che sei
fra le mie braccia
un girasole
spunta fuori
da un colletto di camicia,
incantato da una stella
più vicina;
mi segui senza posa
con gli sguardi
mentre il sole non geloso
seguita a baciarti,
come chi senza livore
lascia andare:

ovunque,
purché tu sia felice.

 

 

 

 


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Immagine in evidenza: Priyanka Paul

Gli occhi non servono

 

 

C’è un paese
affacciato sul mare,
ogni dí splende il sole
e la notte è serena,
puntinata di fori
di luce
sopra case minute
e di tanti colori
vivaci;
l’aria tiepida,
come in maggio,
s’insinua tra i fiori
e s’impregna,
passando,
dei loro profumi,
l’annuso ascoltando
la melodia degli uccelli,
una fragola assaggio,
una brezza leggera
mi smuove i capelli
e disperde il dolore.

C’è un paese dove sono felice.
C’è un paese dove tu ami me,
mentre faccio lo stesso con te.

Quel paese si chiama poesia.

Gli occhi non servono,
chiudili pure,
se mi prendi la mano
ti porto con me,
un verso alla volta
t’insegno la via.

 

 

 

🎧: (What a) Wonderful world – Sam Cooke

Strawberry fields forever – The Beatles

 

 


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Immagine in evidenza: Hülya Özdemir

Le scarpe nuove (secondo e ultimo tempo)

[continua da qui]

…Immagina adesso di essere arrivata a casa. Hai le scarpe vecchie un po’ sudicie per la pioggia ed il fango che ti hanno sorpreso a metà del tragitto, le altre invece sono illese, dato che le hai tenute al riparo dentro al cappotto, sempre strette sotto il tuo premuroso braccio.

Devo dirtelo, però, non credo sia stata una grande idea, giacché se non l’avessi fatto avresti visto come si sarebbero comportate in un giorno di pioggia e come avrebbero reagito, testando in questo modo la loro resistenza.

Il tuo primo pensiero, una volta entrata, è quello di sistemare le scarpe nuove sotto al letto, un po’ in fondo, quasi fossero un grande tesoro da nascondere; togli il cappotto umido, sfili velocemente le scarpe borgogna e ti fiondi in bagno per pulirle, con non troppo riguardo all’inizio, ma poi, sfregando sfregando, le guardi meglio – le compagne di una vita – e cerchi di metterci un po’ più d’amore; d’altronde, probabilmente, questa è l’ultima volta che lo farai. Questo pensiero inizia ad innescare come una miccia tutta un’altra serie di pensieri; la mente inizia a vagare e cominci a ricordarti i momenti passati insieme, immersa nella stessa nostalgia che si prova riguardando le foto scattate in una vacanza ormai finita: ti sforzi di afferrare la sensazione della prima volta in cui le hai indossate, anche se è passato molto tempo e non riesci bene a immedesimarti e vorresti tanto riviverla; ricordi però che era un giorno di agosto di tantissimi anni fa e che quel giorno ti sembravano le scarpe più belle del mondo. Non alla moda. Di più! Avanguardia P-u-r-a! Ricordi i viaggi da sola e in compagnia, i concerti sfiancanti per i salti e le ore in piedi, tutti gli esami che hai dato all’università mentre loro ti assistevano prima nell’ansia poi nel sollievo, le corse in mezzo ai campi in primavera fra l’erba alta e i papaveri e quelle per prendere il bus in città, i piedi affondati sotto svariati centimetri di gelida neve negli interminabili inverni, il giorno della laurea in cui le avevi fatte tirare a lucido, i pranzi in famiglia, i compleanni, i momenti brutti, tutte le occasioni dalle quali sono uscite sempre pressoché indenni. Senza neanche accorgertene, una lacrima ti scivola lungo la guancia cadendo sulla scarpa destra, asciugata prontamente dal pannetto morbido che stai usando per pulirle, ormai sempre con più dedizione e tenerezza. In un moto d’affetto improvviso fai un gesto all’apparenza ridicolo, ma quello è ciò che senti di fare in questo momento: le abbracci forte con grande impeto, nella maniera in cui, all’età di sei anni, stringevi al petto Camilla, la tua bambola preferita, quando dovevi allontanartene anche solo per qualche ora. «Cami, Cami, tranquilla che non ti abbandono per sempre, torno presto, te lo giuro sui miei capelli…» – le dicevi per rassicurarla, dondolandola fra le braccia quasi a soffocarla.

Questa promessa, però, alle tue scarpe non puoi davvero farla.

Torni in camera scalza, con passi incerti, le scarpe borgogna ripulite tenute saldamente fra indice medio e pollice. È arrivato, ahimè, il momento di decidere. Tiri fuori dal letto le nuove arrivate e ti sembrano ancora più belle di quando le hai ammirate prima. Nella mano sinistra il mondo vecchio, le forme rassicuranti dell’abitudine, il profondo affetto, ma anche l’insoddisfazione e un po’ di felicità sepolta; nella mano destra la novità, l’imprevedibile, il sogno ad occhi aperti, la speranza, le aspettative, la vita. Quelle che tieni nella mano sinistra ti accorgi che pesano nettamente di più: la vita vissuta ha aggiunto il suo carico di ricordi.
Davanti allo specchio, i tuoi piedi nudi sono al centro, premuti sul pavimento freddissimo e i due mondi schierati nella stessa posizione di prima: l’uno alla tua destra, l’altro alla tua sinistra.
Ora tocca a te scegliere da quale parte stare.
C’è un vecchio modo di dire popolare che descrive quelle persone che pur di non fare una scelta fra due situazioni preferiscono stare nella scomodità, tenendo “due piedi in una scarpa”; tu, in questo momento, vorresti tenerli in ben quattro scarpe o, in alternativa, indossarne una di un colore e una dell’altro, se non fosse che sarebbero orribili a vedersi e sei certa che questa situazione non potrebbe durare a lungo, senza contare poi le differenze strutturali delle due calzature che ti renderebbero complicato anche solo camminarci.
Con un occhio serrato e l’altro socchiuso sei in procinto di fare la tua scelta; non sai cosa succederà al paio che hai scartato, se sparirà o rimarrà, se si farà lilliputziano e rattrappito per il dolore del rifiuto; non lo saprai mai, se prima non agisci.

Ora immagina di uscire dalla semi oscurità e di riaprire piano entrambi gli occhi: tutto intorno appare mutato; tutto, ad eccezione di una cosa: le altre scarpe sono ancora lì, sono ancora integre, ma sembrano invecchiate improvvisamente di anni in un colpo solo. In questo momento le scarpe che hai ai piedi – quelle che hai scelto – passano in secondo piano e la tua preoccupazione è solo quella di trovare un rifugio sicuro per quelle che hai lasciato, di dargli l’ultimo saluto.
Un po’ smarrita vaghi per la casa e individui il luogo prescelto in un piccolo armadietto chiuso con una chiave minuscola, che pensi terrai con te dopo averle sistemate, con la speranza che nessuno lo aprirà mai. Sapevi di dover fare in conti con la tristezza, con la malinconia che si porta dietro l’addio, ma questo sentimento viene ora a combinarsi con lo stupore per ciò che ti si è appena parato dinanzi agli occhi: nel corridoio, infatti, hai appena intercettato uno specchio antico e lo sguardo non può che cadere lì in basso, sui piedi. Le scarpe nuove ti stanno divinamente, ti giri e ti rigiri per guardarle bene da tutte le angolazioni e vai a cercare il vestito batik per vederti favolosa fino alla punta dell’alluce, per l’appunto; questa cosa, però, non l’avevi messa proprio in conto…il vestito batik è sparito! Nell’armadio, adesso, ce n’è uno bellissimo a tinta unita della stessa tonalità delle scarpe, più da adulta ed esattamente della tua taglia. Tra lo smarrimento, l’eccitazione e la preoccupazione non avevi però ancora notato che le scarpe che indossi ora ti danno un po’ fastidio sulla scollatura, all’attaccatura dei mignolini; pensi allora che debbano ancora adattarsi per bene e che ci vorrà un po’ – speri poco. Tutto sommato, però, sono alquanto comode, benché un po’ rigide, e il fastidio sembra abbastanza tollerabile, anche se è ancora presto per dirlo.

D’un tratto un suono artificiale irrompe fra il ticchettio dei tacchi irradiandosi dal citofono di casa; rispondi un ‘chi è?’ non troppo esitante e una voce maschile mai sentita prima, ma nello stesso tempo familiare – senza svelarti la sua identità – t’invita a scendere. Rispondi un sì carico di aspettativa, senza pensare, senza timori, senza fare ulteriori domande, infili di fretta il nuovo abito, prendi il cappotto senza indossarlo, preferendo patire un po’ il freddo perché bella vuoi apparire, e afferri una borsetta da sera che ha già dentro tutto l’occorrente, anche la scatola di cerotti. Fai scivolare dentro anche la chiave dell’armadietto. Anzi, no. Ci ripensi e la metti in un cassetto.
Aperto il portone ti accorgi che anche il mondo esterno è cambiato. Il piccolo cortile con le aiuole piene di rose bianche ha lasciato il posto ad un portico basso dai muri color pesca un po’ scrostati e ad una strada pavimentata da piccoli ciottoli irregolari; il primo pensiero che hai è il timore di rovinare il tacco incastrandolo fra i sampietrini. Poco male, starai attenta, ti rinfranchi prontamente. Di là dalla strada, poco più avanti, un’auto, anch’essa blu notte, è ferma con lo sportello del guidatore aperto. Un ragazzo alto, vestito di scuro e dal volto già visto, ma non ricordi né dove né quando, ti fa un cenno abbozzato di saluto con la mano e ti sorride strizzando tutti e due gli occhi. Passa dall’altra parte dell’auto e apre la portiera dal lato del passeggero, aspettandoti.
«Benvenuta! Sei bellissima – lo senti sussurrare all’orecchio, quando stai per entrare – fino alla punta dell’alluce…» – aggiunge con la faccia malandrina di chi sa già tutto.
Gli sportelli si chiudono l’uno dopo l’altro in un tonfo sordo, il rombo del motore squarcia la quiete notturna e l’auto si allontana per la strada ciottolata diventando sempre più piccola con la distanza, coi fari accesi per guidarla nell’oscurità, ma tu non puoi più vederla perché a questo punto ci sei dentro. Si dirige sicura seguendo le indicazioni dei cartelli stradali, quelli che puntano verso l’ignoto, verso la nuova vita, verso la via in cui abita la felicità e lì sosterà, aspettando che esca dal portone di casa per invitarla a fare un giro e mostrarle quanto è bella la città rischiarata dalle luci della notte.

Adesso puoi anche smettere di immaginare tutto: c’è solo da vivere.

 

 

 

 

 

🎧 : Wakin on a pretty day – Kurt Vile

 


Credits
Immagine in evidenza: Babeth Lafon

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